Incontro con l’Impressionismo
Vincenzo Ciardo è stato, in verità, il mio primo maestro in pittura.
Nel 1940 ebbi notizia che all’Accademia di Belle Arti di Napoli s’istituiva un “Corso Libero di Paesaggio” e mi iscrissi.
In un piccolo gruppo si andava fuori a dipingere all’aperto con cassettina, cavalletto e sgabellino.
Non ho ricordo di come ci trasferivamo così armati in campagna ad Agnano o a Capodimonte, o al Vomero alla Floridiana. Ricordo invece che ad Agnano in una triste grigia mattina di febbraio Ciardo mi spiegò: «In questo cielo, in questa atmosfera di Napoli c’è nel colore dell’aria, nel colore che avvolge le cose sempre un po’ di rosa. Una punta di terra di Pozzuoli ti dà il tono dell’atmosfera napoletana: è il colore da unire a tutte le cose».
E nell’atmosfera di quel mattino d’inverno i pini scuri, radi e alti sull’orizzonte, il ramificarsi della vite spoglia si disegnarono con le loro chiome in un timido poetico vibrare grigio rosato del cielo. (Il quadruccio si perse nei meandri dell’Accademia di Napoli, ove Ciardo volle conservarlo.)
In Floridiana il maestro scherzava alle mie spalle, disapprovando il tema che avevo scelto: «Dove c’è la visione più complicata da risolvere, là si va a piazzare lei!…»
Con molto tatto mi induceva a trasferirmi con sediolino, cassetta e cavalletto dinanzi ad altro soggetto più semplice, in ogni caso pedagogicamente più equilibrato per i miei sforzi di principiante. Nacque così il “Platano invernale” della Floridiana.
Girando vigile fra noi, Ciardo si avvicinava alle mie spalle, mentre mi stavo arrabattando con quei pennelli-scopini (così giudicavo i pennelli di setola) che mi insegnava ad usare, su quel pezzo di compensato ruvido e riarso per una sottopreparazione primordiale (secondo la ricetta ricevuta!). «Eh!…» «Però…» diceva quasi fra sé il Maestro. E mi invitava a non toccare più oltre questa o quella parte del dipinto appena abbozzato. «Lasci così quest’albero contro il cielo, solo accentui qui nel primo piano questa agave, così con una pennellata decisa» e guidava la mia mano a quel tocco sapiente, per cui il cespo si stacca dall’insieme con una forza fin eccessiva rispetto al resto!
A Camaldoli gli alunni dell’Accademia, che avevano frequentato il Liceo Artistico e perciò sapevano disegnare e conoscevano la prospettiva, realizzavano meglio di me le strutture architettoniche. Eppure con stupore del Maestro, attraverso il buio, rozzo e maldestro, dei miei due archi, due brani di paesaggio luminoso, pieni di vita, sono realizzati nei colori luce dell’atmosfera, che gli Impressionisti francesi hanno conquistato alla visione moderna (Paesaggio, fig. 6).
Impressionisti, di cui io non avevo visto mai un’opera e ignoravo perfino l’esistenza. (Nei miei studi classici le mie cognizioni erano a stento maturate alla capacità di distinguere un arco romanico da uno gotico. Non più oltre).
Ricordo con quale gioia scoprii che, ove gli alberi si collocavano in profondità, una pennellata azzurra riusciva a rendere la densità del verde, lo faceva apparire più intenso, ombroso, lontano.
Più tardi, dedicata ormai all’insegnamento della Storia dell’Arte, compresi anche nella teoria, e perciò consapevolezza critica, il significato della novità coloristica realizzata per la prima volta da Corot nel quadro famoso de “Il ponte di Anagni”.
Sulle pareti di casa mia i paesaggi di mio nonno, accurato e nobile pittore neo-classico e purista (Max Hauschild, 1810-1895), ignoravano quella luce, che ormai i miei occhi sempre più chiaramente individuavano negli effetti del “plein air”.
Ciardo mi portava per quella strada e, come accade in questi casi, io andavo e non sapevo dove… Con quei terribili pennelli di setola e quella grattuggiosa preparazione sulla mia tavoletta.
Una mattina di primavera pioveva. Dovemmo rinunziare ad andare fuori. Ciardo comprò un rametto di “mandorlo fiorito”, appena sbocciato, una primizia, e lo collocò su un rozzo vasetto di coccio bruno. Grigio-biancastra, arida e morta, era la parete dell’aula in cui ci sistemammo a dipingere per non perdere del tutto la mattinata.
Ero veramente avvilita. «Ecco ci siamo. Ora eccomi a dipingere i “mandorli in fiore”…» Mio padre, per contrastare la mia passione per la pittura ed evitare che insistessi con quel desiderio di andare al Liceo Artistico, all’Accademia, aveva sempre ripetuto: «Cosa vuoi fare? dipingere “mandorli in fiore” come la signorina Immacolata?» e mi prospettava l’immagine di una conoscente zitella, pittrice infaticabile di fiori – mandorli, gigli, rose ecc. – , prodotti sdolcinati, retorici di un vieto sentimentalismo ottocentesco. «Ecco ci siamo. Ora imparo a dipingere i mandorli in fiore, come le signorine educande che vanno a scuola dalle monache: Maria Ausiliatrice, Santa Dorotea, o che so io…».
Con il mio pennello-scopino mi arrabatto a stendere un fondo grigio perla sulla mia tavoletta mal preparata. Poi con cautela:
«Che delizia questo boccio rosa qui, …questo però è più chiaro, quest’altro invece ha un petalo che appare più intenso, rispetto a quest’altro…» Ma che disastro!
Un tratto bruno deciso indica la direzione diagonale del ramo.
Con timida emozione persevero a collocare ora uno, ora un’altro tocco di quei rosa che tentano di rendere la diafana delicatezza dei fiorini, che sbocciano ora a destra, ora a sinistra del nudo rametto.
Ma quel fiorellino prezioso ha un raffinatissimo disegno di contorno, deliziosi pistillini!… Poiché non mi riesce di concludere nulla con le informi timide macchie, che la tecnica, prospettatami dal Maestro, mi faceva realizzare, decido, con interiore crollo di umiliante umiltà, «ora provo a fare come i mandorli nelle cartoline delle educande delle suore, disegnerò anch’io preziosi contorni, delicatissimi pistillini!…»
Ahimè, impresa impossibile con quei pennelli di setola, quella grezza sottopreparazione!… «Neppure i fiori della signorina Immacolata saprò mai fare…» Al colmo della disperazione, sto lì lì per sciogliermi in lacrime.
«Però!» risuona alle mie spalle la voce del Maestro. «Professore, non so farli». «Si alzi. Eh!… Però!…»
Incredibile! Il ramoscello è proprio lì fragile e vivo, vibrante in quei tenui tocchi di rosa, piccole macchie di vari toni, collocati intorno al rozzo stelo bruno nell’ancor più rozzo vaso di coccio sul fondo grigio appena accennato. Incredibile!. «Questa è pittura impressionista! Non farci più nulla.» E mi guidò ancora una volta la mano, in modo delicatissimo, a mettere qualche lieve tocco di verde. Appena, appena. «Poi più nulla. Sta bene così!!»
È vero. Incredibile! (“Mandorlo fiorito”)
«Oggi hai fatto un capolavoro» dice Ciardo con il suo fare semplice e pacato e, con grande semplicità e pacatezza mi spiega: «Perché, vedi, un capolavoro si ha quando c’è coerenza fra l’oggetto, lo stato d’animo e la resa pittorica. Di qualunque entità sia il risultato quello è un “capolavoro”».
Molto più tardi mi resi conto che la spiegazione corrispondeva al concetto di “bellezza” nel pensiero della filosofia della scolastica di S. Bonaventura: “Bellezza è un rapporto di uguaglianza”.
Mai avrei capito il senso profondo di questa medioevale asserzione senza quella ermetica spiegazione di Ciardo riguardo al mio modestissimo primordiale “fior di mandorlo”.